Da che mondo è mondo, il culmine di ogni strategia di marketing viene raggiunto
grazie al
messaggio promo-emozionale (diretto o indiretto) insito nello spot.
Ma
dato che negli ultimi anni il mezzo su cui transita la pubblicità è cambiato, deve
essere modificata anche la forma di questo messaggio.
Sui social media avviene un tipo di
narrazione transazionale, costruita sulla
relazione diretta con gli utenti. E dal momento che il target diviene attivo, non può
più essere manipolato, ma bisogna concretamente gestirlo.
In pratica, il target deve
essere accompagnato per mano verso la creazione di un
valore condiviso.
Non più dunque un momento di attrazione che ricalca il canto delle Sirene con
Ulisse, ma una serie di azioni dirette, che il community manager compie nei
confronti del target.
La
dimensione psicologica lineare in cui egli deve porsi è quella Bambino-Bambino,
necessaria per manifestare una
condivisione d’interessi con il target e generare,
infine, collusione.
Il target, del resto, è costituito dagli utenti. E il modo per veicolare il
messaggio
emozionale-transazionale si esplica in tre differenti momenti di un’unica fase.
In primis, la community deve attrarre.
L’attrazione (attraction) è sempre legata ad
un piacere o a un tornaconto personale, che l’utente crede di poter trovare nel
frequentare un posto.
Questo valore iniziale deve fondarsi su un’
accumulazione
originaria, rappresentata dalla storia del brand (astratta) e dai contenuti messi a
disposizione del pubblico (concreta).
Dato che quest’accumulazione sta a monte,
non può essere direttamente creata dal community manager, ma da lui solamente
decantata (lo storyteller) coerentemente con gli obiettivi aziendali.
L’efficacia di
questo momento sta nell’ottenere più "Mi piace" possibile.
Ma l’attenzione degli utenti, così com’è stata velocemente richiamata (un secondo
per il Like), può facilmente dileguarsi.
Il community manager deve allora generare
coinvolgimento (engagement), il momento culminante della sua strategia.
La
meccanica per rendere partecipi gli utenti è denominata
gamification.
Attraverso la
possibilità di una ricompensa, l’utente viene indotto al gioco, in cambio di un
riconoscimento (maturazione status) o di un
premio (guadagno materiale).
Egli
desidera qualcosa e, attraverso il suo desiderio, accumula piacere – quel sentimento
che crea un legame (rinforzato con il dialogo) nei confronti della community.
Giocando, lottando e (a volte) vincendo, gli utenti condividono il loro tempo e le
emozioni che lo sostanziano.
Il community manager è il mediatore e il catalizzatore
di questa condivisione.
Sfruttando la natura fanciullesca di ogni attività ludica, si
pone come compartecipe, narrando i fatti con il dialogo e strutturando le
reminiscenze immaginifiche degli utenti.
La community (brandizzata)
è dunque
anche
una storia: di coloro che l’hanno conosciuta, vi sono entrati, vi intessono
legami e cooperano con gli altri componenti per risolvere dubbi, superare difficoltà e
partecipare delle vittorie di ognuno di loro.
Le prime due parti le trovi
qui e
qui.
Un guest post di
Marco Gabrielli (1981) che si occupa di
storytelling e social media marketing ed è stato mio allievo in due differenti Business school.
Attualmente, lavora come Seo Copywriter presso una delle maggiori web agency italiane.