La professione di community manager è sorta negli ultimi anni dallo sviluppo impetuoso che ha coinvolto lo strumento dei social media.
Tutti gli specialisti del settore lo sanno: da quando la rete si è trasformata in un network sociale, popolato di identità reali e ben distinte, il marketing ha dovuto rimodulare strategie e tattiche, adattandole ad un pubblico non più semplice consumatore passivo di messaggi e prodotti, ma attivo referente di brand.
L’ambito sociale dei social media ha aperto la strada a nuove impostazioni creative della promozione di marca, dato che ormai il target non può essere più semplicemente suggestionato al compimento di un’azione compulsiva, ma gradatamente persuaso della serietà e della franchezza del marchio che sta a monte di un preciso prodotto (o serie di prodotti).
Per questa ragione – come il titolo di questa serie di articoli recita – sono convinto che il community manager debba svolgere il ruolo di storyteller transazionale.
In questo inconsueto accoppiamento, un approccio sociale di psicologia del marketing si sposa con l’esigenza atavica umana di ripercorrere il proprio vissuto esperienziale sotto forma di racconto.
Il prodotto – e il brand – non vengono più “lanciati” sul mercato e non hanno più lo scopo di fissarsi nell’immaginazione del target come reiterazione temporale incontrollata: prodotto e marchio divengono, attraverso lo storytelling, un vissuto emozionale profondo, un contenuto che si è lentamente sedimentato nel target, ed è divenuto, per così dire, parte della sua anima.
L’inclinazione sintetica del community manager come storyteller transazionale è dovuta all’impostazione concettuale e sistematica tipica della filosofia.
Partendo da una prospettiva teorica multidisciplinare, il community manager fa in modo che la propensione al progresso ed all’innovazione degli esseri umani poggi sul loro alter ego contraddittorio: il bisogno di certezza e di trovare capisaldi nella tradizione.
Narrativa e social media, progresso e consuetudini, divengono i parametri su cui impostare la complessa azione del community manager come storyteller transazionale, rafforzando la percezione che le persone hanno del brand.
Questa distinta consapevolezza deve indirizzare, a mio parere, la pianificazione strategica e l’azione tattica del community manager, per il conseguimento degli obiettivi aziendali.
Un guest post di Marco Gabrielli (1981) che si occupa di storytelling e social media marketing ed è stato mio allievo in due differenti Business school.
Attualmente, lavora come Seo Copywriter presso una delle maggiori web agency italiane.
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